18/03/2011

Intervista alla Prof.ssa Luigia Carlucci Aiello - Preside della Facoltà di Ingegneria dell’informazione, informatica e Statistica, Sapienza, Università di Roma

Luigia Carlucci Aiello dopo essersi laureata in Matematica all'Università di Pisa e diplomata presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, ha lavorato presso l’Istituto di Elaborazione dell'Informazione del CNR e l'Artificial Intelligence Laboratory della Stanford University. Fondatrice e primo presidente della Associazione Italiana per l'Intelligenza Artificiale, ha condotto ricerche sulla rappresentazione della conoscenza e il ragionamento automatico, applicando le tecniche della I.A. alla costruzione di sistemi intelligenti e di supporto all'apprendimento umano. Attualmente è Preside della Facoltà di Ingegneria dell’informazione, informatica e statistica della Sapienza, Università di Roma.

Quali sono, secondo Lei, gli sbocchi professionali per i neolaureati provenienti dalla Facoltà di Ingegneria dell’Informazione, informatica e Statistica di cui è Preside e quali sono le possibilità per questi ragazzi di inserirsi in maniera efficace nel mondo lavorativo?  
La Facoltà di Ingegneria dell’informazione, informatica e statistica è il risultato della fusione di una componente tradizionalmente ingegneristica ed una scientifico-statistica. I nostri laureati sono molto qualificati in un settore estremamente ricercato dalle aziende. Per fortuna quindi ci troviamo in una posizione di grande vantaggio. Rispetto ad altre facoltà i nostri studenti trovano più facilmente un lavoro correlato alla loro specializzazione universitaria. Lo sforzo che ha cominciato a fare la facoltà prima ancora di costituirsi, e che sta continuando con molta energia, è quello di spingere sull’internazionalizzazione dei propri corsi. Abbiamo già 2 lauree magistrali  in ingegneria informatica, in intelligenza artificiale e un semestre in informatica, insegnati completamente in inglese. Questa iniziativa, nata per attrarre più studenti Erasmus e stranieri in genere, è di grande interesse anche per gli studenti italiani, che preferiscono seguire le lezioni e addirittura svolgere l’esame in inglese. L’aver seguito un corso di laurea in inglese è, per questi ragazzi, un punto in più sul curriculum che li agevola in un percorso professionale più internazionale. Abbiamo constatato anche che un buon numero di studenti, arriverà nel mercato del lavoro con un titolo di studio preso in un inglese di buon livello. Questa iniziativa andrebbe pubblicizzata di più, in quanto sono poche le aziende italiane che ne sono a conoscenza. Poco tempo fa ho sentito, infatti, un esponente di una grande azienda sostenere che, per i ragazzi italiani, non sono importanti gli argomenti studiati all’università, ma andare a lavare i piatti in Inghilterra. Questa frase poteva essere accettabile 20 anni fa, ma non oggi. I nostri studenti infatti escono dall’università con un titolo di studio che ha fornito loro sia le conoscenze tecniche che l’inglese, e soprattutto l’inglese tecnico, senza andare a lavare i piatti all’estero. La Sapienza è stata estremamente sensibile all’argomento dell’internazionalizzazione, per esempio sta incentivando una programma dedicato a professori visitatori proprio per la didattica.   
Ho spinto personalmente questo progetto su impulso dei giovani colleghi di ingegneria informatica, quindi conosco bene i problemi e le resistenze incontrate. Le resistenze da parte nostra erano dovute al rischio di insegnare un pessimo inglese, si deve però pensare che non vogliamo insegnare puramente l’inglese, ma che questo è un valore aggiunto sul cv degli studenti.L’esperienza è stata faticosa, ma ci siamo convinti della sua buona riuscita. Gli studenti stranieri ed Erasmus sono aumentati significantemente, studenti non necessariamente provenienti da nazioni anglofone. 

Sono tanti i diplomati e i laureati che ogni anno escono da istituti e università e che non trovano il lavoro per cui hanno studiato. Molti dicono che i ragazzi sbagliano percorsi di studio e che la formazione non è in grado di adattarsi alle richieste delle imprese. Secondo Lei esiste questo divario fra istruzione e realtà lavorativa?  
Ognuno di noi sa che non tutto ciò che ha studiato all’università poi nella vita è servito, anche se si è stati fortunatissimi nel trovare un lavoro in sintonia con gli studi fatti. Quando si fa questa osservazione non si tiene conto, però, del fatto che l’utilità di ciò che abbiamo studiato, non sta in una specifica nozione, un teorema o uno strumento, ma nella formazione che ci ha lasciato, nella capacità che ci ha dato di evolvere e continuare ad imparare nel corso della carriera. In un settore come quello dell’ICT in generale, sempre in rapida evoluzione, pensare che si possa continuare ad usare, per tutta la vita, solo ciò che si è imparato all’università, è risibile. Le tecnologie evolvono a grande velocità e non si può rimanere attaccati a quello che si imparato in aula, quello che, invece, la formazione universitaria deve lasciare è una forma mentis, una capacità di inseguire l’evoluzione delle tecnologie e la capacità di progettarne di nuove. Ciò che i professori devono fare è proprio formare i giovani perché creino l’innovazione futura. Se si riesce in questa missione, i laureati sapranno, una volta immessi nel mercato del lavoro, che l’università ha dato loro una base solida su cui costruire. Chiaramente il mio è un punto di vista molto accademico, ma vorrei affrontare con le imprese il discorso su cosa deve sapere un neo-laureato, in modo da non fare errori da nessuna delle due parti. L’università può infatti sbagliare nel dare una formazione troppo astratta, lontana da quello che poi è il day by day aziendale. L’errore delle aziende, specialmente quelle italiane,  può stare nel pretendere una persona già pronta ad essere immessa su un progetto o su un determinato compito, e in grado di utilizzarne gli strumenti specifici. A questa richiesta l’università non può rispondere, perché gli strumenti sono troppo diversi da azienda ad azienda. Se l’università ha fatto il suo dovere, il ragazzo è in grado sia di imparare velocemente quelle che sono le specificità di un’azienda, sia di adeguarsi all’evoluzione degli strumenti aziendali.Si parla spesso di fuga dei cervelli, problema che riguarda molto anche il mondo universitario. I nostri ragazzi che vanno nelle università estere per fare ricerca, a volte sono costretti a causa della difficile situazione odierna della ricerca Italia. I ragazzi che invece vanno all’estero per lavorare nel settore privato, spesso vengono chiamati da aziende di primo piano e non ho mai sentito di qualcuno che è tornato in Italia perché l’azienda l’aveva trovato non preparato.  
L’affermazione per cui i nostri laureati sono spiazzati rispetto a quello che vuole il mondo del lavoro da loro, dovrebbe, per essere valida, essere contestualizzata e articolata. Riguardo, invece, l’aggiornare l’apprendimento, bisogna stare molto attenti a quello che si intende con questo concetto. In una facoltà come la nostra, un corso di analisi matematica è necessario, certo non come veniva insegnata 100 anni fa. Il programma di un corso di intelligenza artificiale, per fare un esempio, può variare negli anni, in quanto deve restare al passo con l’evoluzione tecnologica e scientifica. Dietro alla costruzione di un curriculum di studi ci deve essere perciò un progetto didattico aggiornato continuamente, secondo le necessità e le richieste della società, della ricerca e del mercato.

Dal 2003, con la legge Biagi, all’Università è affidato il compito di sostenere i propri laureati nella fase di inserimento nel mercato del lavoro, secondo lei quali sono i passi in avanti che l'università dovrebbe fare per avvicinarsi alle necessità del mondo lavorativo? 
L’università italiana ha finora aiutato poco i propri studenti nel passaggio dallo studio al lavoro. Ci sono però molti segnali positivi, le università e le aziende si stanno svegliando e l’esistenza dei tirocini sta svolgendo un ruolo molto importante. L’università dovrebbe iniziare a presentare i ragazzi al mondo del lavoro già quando sono ancora studenti, in modo che al termine degli studi non si trovino disorientati. Personalmente non avrei suggerimenti riguardo i cambiamenti specifici dell’insegnamento, quello su cui invece spingerei di più sono le forme di accompagnamento legate agli aspetti tecnici dell’ingresso nel mondo del lavoro (come si scrive un Cv, come presentarsi ad un colloquio, che tipo di aspettative avere, che tipo di domande fare ecc). Le attività di SOUL ad esempio (seminari, presentazioni aziendali ecc) sono iniziative di grande valore. Nell’ambito del mio corso ho organizzato iniziative dello stesso tipo, coinvolgendo ex studenti che avevano avviato un’azienda con successo per illustrare ai più giovani cosa avevano fatto, sia dal punto di vista tecnico che burocratico, oppure coinvolgendo ex studenti impiegati in azienda per raccontare la propria esperienza. E’ molto importante proporre ai ragazzi esempi concreti.Gli studenti quindi vanno accompagnati con un’azione di tutoraggio o coaching su come presentarsi, come cercare contatti ecc, facendo anche conoscere loro la realtà delle aziende, per questo torno a sottolineare l’importanza dei tirocini, momento molto importante e utile sia per i ragazzi che per le aziende. Ovviamente i tirocini devono essere mirati verso imprese consapevoli dell’occasione che hanno. Per fare un esempio, le aziende americane sono molto attente a come usano il budget che mettono sugli stage. Innanzitutto c’è un budget, lo stagista viene cioè pagato. L’azienda quando accoglie uno stagista comprende bene la possibilità che ha di indagare, attraverso una persona non inquadrata nel proprio organico, nuove idee e fare sperimentazioni che sarebbero impossibili nell’ambito di progetti aziendali consolidati. Questa filosofia vincente dovrebbe essere adottata anche in Italia, dove invece la risorsa dei tirocini non è ancora ben sfruttata, neppure per la sua utilità di preselezione del personale. A volte sono proprio le aziende ad essere imbrigliate in una forma mentis datata. 
 

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