Raimondo Cagiano de Azevedo si è laureato in Economia e Commercio presso l'Università "La Sapienza" di Roma. Ha frequentato corsi di studio e perfezionamento nelle Universita’ di Santander, Parigi, Nizza, John Hopkins University (Bologna). E’ stato preside della facoltà di Economia della Sapienza, Segretario Scientifico del Comitato Nazionale della Popolazione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. E' stato inoltre Presidente del Comitato Europeo per la Popolazione e del Consiglio d'Europa. E’ responsabile di diversi programmi di ricerca nazionali ed europei. Ha ricoperto il ruolo di Segretario Generale della Società Italiana di Statistica (1982-86). Attualmente è Delegato del Rettore per le Relazioni Internazionali Istituzionali presso "La Sapienza". |
I dati Ocse fotografano una situazione difficile per l’Italia, la cosiddetta fuga di cervelli è infatti in costante crescita (nel 2005 gli studenti che si trasferivano in atenei esteri erano 38.691, nel 2007 erano 41.394), quali sono le possibilità per gli studenti della Sapienza di studiare e/o perfezionarsi all’estero ed in che modo, secondo Lei, gli accordi quadro con relativi protocolli aggiuntivi ed esecutivi, i programmi di scambio culturale, le borse di studio e i vari accordi di collaborazione agevolano la mobilità degli studenti?
Ritengo che oggi, all’interno della Sapienza, ci siano ottime opportunità offerte dalle istituzioni per svolgere un periodo di studi all’estero. Le possibilità di accedere ai diversi programmi di studio o di ricerca all’estero, attivi presso il nostro Ateneo, sono di ampio respiro e alla portata di tutti coloro che ne vogliano usufruire in modo serio, coerente e non episodico. C’è però una resistenza culturale che proviene dal linguaggio comunemente usato. Quando si utilizza la dicitura “andare all’estero”, spesso si dimentica che l’Italia è in Europa ed il curriculum di studi non va considerato estero o nazionale, ma come unico percorso che ha dei segmenti formativi acquisiti con modalità organizzativamente diverse. E’ un messaggio difficile da far passare, ma la formazione “all’estero” è in realtà un domestic issue, un modo europeo, quindi anche italiano, di affrontare la questione. Altro discorso, molto importante, è quello della formazione d’eccellenza e specializzata per la quale ci sono ottime opportunità ma molto selettive, ed eventualmente della cosiddetta “fuga dei cervelli”. Partecipando a manifestazioni o conferenze internazionali incontro spesso studenti italiani che lavorano in contesti internazionali. Sono ragazzi molto preparati, con ampie capacità sia linguistiche, tecnologiche che relazionali e apprezzati nel proprio ambito professionale.Quando si parla di “fuga dei cervelli” si intende solitamente una fuga per insoddisfazione o per offerte di lavoro più stimolanti fuori dal paese. Quello, però, che non sappiamo è che esiste anche il fenomeno opposto, ci sono grandi aziende i cui addetti o manager provengono da paesi esteri, non è detto però che i due fenomeni sino equivalenti. Questo primo caso di “fuga” è rilevante e molto sentito in Italia, ci sono però strumenti di recupero, anche se modesti e tortuosi, e misure a sostegno del rientro dei cervelli. L’altra configurazione invece, forse più frequente, è quella di persone che, intrapreso un percorso di tipo formativo internazionale, ritengono che le condizioni che via via si creano, gli renda più interessante restare per un determinato periodo in un’altra dimensione. In questi casi stiamo parlando di percorsi formativi e professionali di respiro internazionale, che corrispondono a scelte più vicine alla cultura del long life learning che non a quella del posto di lavoro ottenuto una volta per tutte. Tra questi due estremi esistono percorsi intermedi, di sofferenza, di delusione, di crisi, ma tutto questo non può essere etichettato genericamente come “fuga di cervelli”, espressione che sottintende l’idea di fallimento, e che invece spesso nasconde storie di successo.
Dal 2003, con la legge Biagi, all'Università è affidato il compito di sostenere i propri laureati nella fase di inserimento nel mercato del lavoro, secondo lei quali sono i passi in avanti che l'università dovrebbe fare per avvicinarsi alle necessità del mondo lavorativo?
Quando ho ricoperto un ruolo di responsabilità nella facoltà di Economia, ho creato le premesse, con l’esperienza di “Sapienza & Lavoro”, di quello che oggi è SOUL. Questo percorso, abbastanza tradizionale, prevede meccanismi di avvicinamento fra il mondo della formazione e quello produttivo; ciò non toglie che ulteriori progressi possono sempre essere fatti.Ho, invece, un’altra visione, non ortodossa sulla funzione che gli studi universitari hanno rispetto all’attività professionale. Le nuove esigenze congiunturali, legate alle vicende economiche, stanno premendo per creare una maggiore funzionalità degli studi nei confronti del mondo del lavoro. Sono ben consapevole di queste esigenze, ritengo però che l’università debba assicurare una formazione culturale e scientifica d’eccellenza indipendentemente, o quasi, dalla prospettiva dello sbocco occupazionale. Un bravo studente o una brava studentessa che sceglie, per vocazione, a quali studi universitari dedicarsi, sarà efficiente qualsiasi percorso professionale intraprenda ed una volta raggiunta la maturità personale e formativa (con tutti i limiti dovuti alle caratteristiche delle diverse professioni e dei diversi corsi di studi), avrà più possibilità di successo che non preparandosi in modo puntuale e preciso su una professione in particolare. Sono comunque convinto che l’università ha ancora la funzione di spronare, preparare ed aiutare i ragazzi nella propria emancipazione sia culturale che lavorativa. Temo, però, che si stia perdendo di vista la prima funzione dell’università, cioè la cultura, la solidità della preparazione e l’eccellenza senza un vincolo iniziale a studiare per essere operatori di una professione piuttosto che un’altra.