09/02/2011

Intervista al Prof. Patrizio Di Nicola - Docente di Processi e cultura organizzativa di impresa, Sapienza, Università di Roma

Patrizio Di Nicola si è laureato in Sociologia presso la Sapienza, Università di Roma. E' stato direttore scientifico di molte ricerche sul telelavoro, le imprese virtuali, l'apprendimento a distanza e sul mercato del lavoro post-industriale. E’ stato consulente manageriale di imprese e enti di governo. Ha pubblicato saggi sul telelavoro. Sta inoltre conducendo ricerche sul lavoro flessibile e precario. Attualmente è docente di Processi e cultura organizzativa di impresa presso la ex Facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza e Co-Direttore del Master in Comunicazione e Enterprise Governance. 

E’ stato presentato il “Piano di azione per l’occupabilità giovanile” che prevede, tra le altre cose, la valorizzazione del contratto di apprendistato e degli stage. Secondo la Sua esperienza, per un neolaureato in cerca di occupazione, quali sono gli strumenti più adattati per inserirsi nel mondo lavorativo e successivamente costruirsi una carriera professionale?
Vorrei iniziare con il segnalare le due debolezze della società italiana che rendono difficile occupare i giovani neolaureati. Da una parte vi è il nostro sistema economico, basato su milioni di micro-imprese manifatturiere e commerciali e da un numero piccolo di grandi imprese, che pur richiedendo alte competenze teorico-strutturali come quelle di cui sono portatori i neolaureati, non sono però in grado di generare i posti di lavoro che sarebbero necessari. Questo problema, ovviamente, si deve risolvere con politiche di sviluppo nazionali intese a riallineare il modello produttivo italiano portandolo agli standard di altri paesi europei come Regno Unito, Francia, Germania. Dall’altra parte, in un mercato che accoglie pochi neolaureati con offerte di lavoro attinenti gli studi effettuati, vi è una fortissima tendenza dei già occupati a “lasciare l’impiego” ai propri figli. Si spiega così il fenomeno, tutto italiano, per cui molti figli fanno il lavoro dei genitori: avviene tra i professori, gli avvocati, i medici, i notai, nella pubblica amministrazione, nelle banche, tra gli attori e persino tra i cantanti. In tale contesto un bravo neolaureato, se non ha i genitori inseriti in posizioni forti nel mercato del lavoro o nelle professioni, parte con un handicap a volte incolmabile. Non pare casuale, tanto per fare un esempio, che il rischio di disoccupazione di un giovane che vive in una famiglia di pensionati o disoccupati sia doppio rispetto a chi vive in una famiglia ove entrambi i coniugi lavorano.Per quanto detto i contratti di apprendistato e di stage sono utilissimi. Per molti giovani è l’unico modo di “farsi conoscere” da una impresa, dando un saggio del proprio valore e delle proprie competenze. Ma ciò a patto che le imprese che assumono lo stagista siano oneste, cioè che siano davvero interessate a trasferirgli delle competenze utili (magari in vista di un inserimento duraturo in azienda) e non siano alla ricerca invece di forza lavoro a costo nullo per mansioni ripetitive.

Sono tanti i diplomati e i laureati che ogni anno escono da istituti e università e che non trovano il lavoro per cui hanno studiato. Molti dicono che i ragazzi sbagliano percorsi di studio e che la formazione non è in grado di adattarsi alle richieste delle imprese. Secondo Lei esiste questo divario fra istruzione e realtà lavorativa?  
Non credo che esistano davvero percorsi di studio sbagliati, ma solo forti disallineamenti tra l’istituzione Azienda e l’istituzione Università. Le prime faticano, in un mondo globalizzato e in continuo cambiamento, a capire quali sono le figure professionali e le competenze di cui avranno bisogno tra 5 o 10 anni e ciò rende difficile immaginare  nuovi corsi di studio mirati alle esigenze del sistema economico. Le seconde, anche a causa di regole che cambiano in continuazione, faticano molto a proporre corsi che privilegino l’acquisizione di conoscenze mirate ed operative nei diversi campi del sapere. Le Università scontano ancora un approccio eccessivamente teorico, mentre le aziende chiedono più pratica, anche se non sanno descrivere di che tipo. Tale impasse a mio avviso si potrà superare solo coinvolgendo le imprese nella progettazione dei corsi. La risposta della recente riforma, che intende dare ai rappresentanti delle associazioni imprenditoriali il diritto di sedere nei Consigli di Amministrazione delle Università non mi pare rispondere a tale esigenza. 

Presentazioni aziendali, career day, seminari e convegni sono tutti momenti in cui studenti universitari, laureandi e neolaureati possono avvicinarsi alla realtà aziendale e conoscerne così le diverse e nuove esigenze ed i possibili sbocchi professionali. Secondo Lei, quanto sono efficaci questi momenti di incontro e quali potrebbero essere altre modalità di confronto tra mondo universitario e lavorativo?
Sono molto utili, come tutte le iniziative che favoriscono l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro. Per i neolaureati sono buone occasioni per farsi un’idea su cosa fanno le diverse imprese, scoprirne di nuove, capire quali sono le competenze più ricercate. A volte, specialmente i career day, rischiano di divenire strumenti di business per le aziende specializzate nella ricerca di manodopera. Tali iniziative dovrebbero avvenire con un controllo delle università e un coinvolgimento delle loro strutture di placement, cosa che non sempre avviene. 

Dal 2003, con la legge Biagi, all'Università è affidato il compito di sostenere i propri laureati nella fase di inserimento nel mercato del lavoro, secondo lei quali sono i passi in avanti che l'università dovrebbe fare per avvicinarsi alle necessità del mondo lavorativo? 
E’ evidente che la legge del 2003 ha affidato un compito importante alle università, ma al contempo non le ha dotate né di fondi per svolgere le nuove funzioni, né di strumenti per combattere i falsi stage, quelli che nascondono solo lavori non retribuiti, senza apprendimento di significative competenze da parte dello stagista. Combattere questo fenomeno non è facile. In teoria, visto che gli stage sono indispensabili per acquisire crediti e laurearsi, non è di interesse né degli studenti né delle università denunciare l’inutilità dello stage presso una specifica azienda. Gli uni rischierebbero di perdere i crediti, le altre dovrebbero cercare nuove aziende disponibili ad accettare gli studenti, il che è ovviamente un lavoro oneroso. Anche JobSoul, che ovviamente fa di tutto per rispettare lo spirito della legge Biagi, ha di tanto in tanto offerte di stage “dissonanti”, che chiedono figure di “responsabile” o di “esperto”, il che e’ ovviamente incompatibile con il fatto che lo stage serve ad apprendere un mestiere, non a svolgerlo. Per concludere vorrei segnalare che in questi giorni la CGIL ha lanciato una interessante iniziativa contro gli stage “truffa”, proponendo un decalogo dei diritti degli stagisti (si veda http://www.nonpiu.it/?p=1069) e dei praticanti (http://www.nonpiu.it/?p=1076). A mio avviso si tratta di proposte ragionevoli, alla quale le Università italiane  dovrebbero ispirarsi, riaffermando con forza che lo stage e’ uno scambio che deve avvenire alla pari: il giovane porta in azienda quel che ha imparato durante lo studio; le aziende insegnano la pratica operativa del lavoro e compensano le spese dello stagista con un piccolo rimborso. Tutte le aziende migliori, del resto, già applicano queste regole minime.  
 

Categoria: