13/04/2011

Intervista al Prof. Marco Stancati - Docente di Pianificazione dei Media e Comunicazione d’Impresa, Sapienza, Università di Roma

Marco Stancati si è laureato in Scienze Politiche e, nel corso degli anni, ha pubblicato diversi articoli e saggi affrontando temi come: l’Employer Branding, la comunicazione interna, la qualità organizzativa, l’evoluzione del processo di Media Planning, il marketing nella società 2.0. Attualmente è docente di Pianificazione dei Media e Comunicazione d’Impresa presso la Sapienza, Università di Roma. 
E’ stato presentato il Piano di azione per l’occupabilità giovanile che prevede, tra le altre cose, la valorizzazione del contratto di apprendistato e degli stage. Secondo la Sua esperienza, per un neolaureato in cerca di occupazione, quali sono gli strumenti più adattati per inserirsi nel mondo lavorativo e successivamente costruirsi una carriera professionale?
Il contratto di apprendistato e lo stage sarebbero un ottimo strumento se venissero vissuti, anche dalle aziende, come un momento di passaggio verso una soluzione definitiva. Da qualche anno purtroppo sono utilizzati solo per acquisire lavoratori a basso costo: alla fine del percorso di lavoro-formazione, spesso il neolaureato viene mandato via per far spazio ad un altro. L’uso corretto di questi strumenti sarebbe prezioso, se fosse vissuto come un momento di confronto nel quale il neolaureato, desideroso di inserirsi nel mondo del lavoro, può capire se quella attività lavorativa fa per lui, e l’azienda può comprendere se quella risorsa lavorativa ha le potenzialità richieste.
Il consiglio che posso dare ai nostri laureati/laureandi, come professore esterno che viene dal mondo delle aziende, è quello di accogliere con entusiasmo ogni occasione offerta dall’Università, di provare a fare materialmente qualcosa. Per esempio nel mio corso di Pianificazione dei Media, propongo agli studenti di sviluppare un vero e proprio  media plan anziché sostenere un esame tradizionale, proprio perché non c’è metodo migliore per imparare a fare una cosa che provare a farla.
Lo stage, il periodo di prova, il primo contratto a tempo dovrebbero tornare a svolgere la loro vera funzione: consentire ad entrambi (neoassunto e impresa) di valutare se ci sono le condizioni per un rapporto più duraturo.

Sono tanti i diplomati e i laureati che ogni anno escono da istituti e università e che non trovano il lavoro per cui hanno studiato. Molti dicono che i ragazzi sbagliano percorsi di studio e che la formazione non è in grado di adattarsi alle richieste delle imprese. Secondo Lei esiste questo divario fra istruzione e realtà lavorativa?
Questo divario non è una novità dei tempi. Appena laureato anch’io trovai un lavoro apparentemente non coerente con i miei studi, nel quale, però, misi a frutto strumenti e capacità, soprattutto dal punto di vista metodologico e relazionale, che l’università mi aveva trasmesso.
Oggi il divario lavoro–università è aggravato anche dalla moltiplicazione delle possibilità di scelta. Troppo spesso i ragazzi decidono, non in rapporto ad una progettualità relativa al proprio domani o alle proprie passioni, ma in rapporto ad una serie di parametri contingenti come: la vicinanza a casa, la presenza di test  di ingresso, la presunta facilità del corso. I ragazzi, al momento della scelta della facoltà universitaria, non hanno ancora ben chiari i propri obiettivi futuri e la scelta, fatta in base alle sole motivazioni contingenti, è un errore che aggrava, successivamente, il problema della distanza tra formazione e realtà lavorativa.
Dal 2000, da quando molti docenti provenienti dal mondo dell’impresa hanno fatto il loro ingresso nelle università, si è cercato di accorciare questa distanza, senza trasformare l’università in una scuola professionale, ma tenendo conto dei nuovi panorami professionali imposti dal mercato.
I giovani dovrebbero, dal canto loro, intraprendere il percorso di studi che più li appassiona anche affrontando le difficoltà del momento (numero chiuso, distanza da casa, difficoltà iniziali, cambio di metodologia di apprendimento…). Infatti, approfondire gli argomenti per cui ci si sente portati quasi sempre corrisponde alle effettive abilità della persona. Ritrovarsi alla fine con una laurea che "titola" senza abilitare davvero, perché quella materia era la terza o la quarta scelta o era semplicemente la scelta più a portata di mano, è inutile o controproducente.
E’ anche sbagliato scegliere secondo la contingenza economica, visto che la società evolve rapidamente e le figure professionali richieste, oggi, dal mercato del lavoro probabilmente non saranno le stesse richieste domani. O richieste nella stessa misura. Meglio quindi secondare la propria predisposizione. Laurearsi con una votazione bassa a causa di una scelta non ponderata o di uno studio superficiale, o non laurearsi affatto, sono (devo dare ragione a Domenico De Masi), dal punto di vista dell’appetibilità sul mercato  del neolavoratore, praticamente la stessa cosa.

Presentazioni aziendali, career day, seminari e convegni sono tutti momenti in cui studenti universitari, laureandi e neolaureati possono avvicinarsi alla realtà aziendale e conoscerne così le diverse e nuove esigenze ed i possibili sbocchi professionali. Secondo Lei, quanto sono efficaci questi momenti di incontro e quali potrebbero essere altre modalità di confronto tra mondo universitario e lavorativo?
Torniamo al discorso dell’incoerenza del sistema delle imprese. In questi anni abbiamo visto moltiplicarsi job meeting, career day, campagne di employer branding ecc., ma constatiamo che nella realtà spesso queste campagne sono puro branding, non finalizzato alla selezione del personale, ma solo alla pubblicità di marca. Può capitare infatti che i giovani accorrano a questi eventi con il solo risultato di essere sommersi di gadget e proposte commerciali (apri il c/c giovani, iscriviti al Master che ti darà una chance in più, sottoscrivi il contratto formula studenti ecc.). A cosa serve allora tutto ciò? I neolaureati, che sono andati speranzosi, troppo spesso tornano a casa con la sensazione di essere stati presi in giro. O sfruttati.
A fronte di compagne di employer branding, le imprese dovrebbero dichiarare poi quante persone sono state assunte a seguito dell’iniziativa, in modo da dimostrare che quell’iniziativa era effettivamente finalizzata a selezionare professionalità lavorative e non invece guidata da criteri di puro (bieco) marketing. Queste iniziative, infatti, hanno un senso se poi percorso e risultati vengono messi a disposizione di tutti i partecipanti in maniera trasparente. Sarebbe un forte incentivo per gli studenti a seguire quei brand che si comportano correttamente e a tralasciare quelli che, invece, utilizzano queste iniziative in maniera strumentale e soltanto per fare autopromozione.
Tra le iniziative che può mettere in campo l’Università, abbiamo già degli esempi: a Scienze della Comunicazione abbiamo creato un tavolo di confronto, intorno al quale analizzare le esperienze dei singoli professori su come tutelano e aiutano gli studenti nel momento di passaggio dal mondo universitario a quello lavorativo. Questo metodo potrebbe essere esportato in una chiave più sistematica e periodica tra gli organismi universitari che si occupano di placement, come SOUL, e le aziende. Un tavolo periodico intorno al quale ci si chiariscano le idee e ci si interroghi concretamente sugli skill professionali che servono nell’attualità e in prospettiva, uscendo dal luogo comune della "necessità di talenti". Capita spesso a noi professori di ricevere, dalle aziende, richieste di "talenti", ma quando si cerca di capire le caratteristiche che fanno di un  giovane un "talento", non si ottiene una risposta chiara. E’ sorprendente, ma le imprese sembrano non sapere che "talento" vogliono.
Per questo motivo, aiutare il sistema delle imprese a definire in maniera meno generica le figure professionali alla cui formazione l’Università deve contribuire, è utile sia all’università che all’azienda stessa. Alle imprese servirebbe per capire esattamente di che professionalità ha bisogno. All’università sarebbe indispensabile sia per la manutenzione dei curricula sia per segnalare studenti con caratteristiche e potenzialità coerenti, mettendo così in moto un processo di adeguamento continuo alle esigenze del mondo del lavoro.
Di questi problemi, e dell’incoerenza del sistema delle imprese, ho parlato più dettagliatamente in un articolo sulla rivista dei dottorandi di Scienze della Comunicazione, edita da Lupetti: ComunicazionePuntoDoc.

Dal 2003, con la legge Biagi, all'Università è affidato il compito di sostenere i propri laureati nella fase di inserimento nel mercato del lavoro. Secondo Lei quali sono i passi in avanti che l'università dovrebbe fare per avvicinarsi alle necessità del mondo lavorativo?
Come appena detto, solo da un tavolo di confronto periodico tra aziende e università, si può capire meglio come sta evolvendo il mondo della domanda di lavoro e, di conseguenza, quali esigenze di nuove o differenti professionalità ha bisogno. 
Nel sistema universitario vengono ancora utilizzate definizioni di professionalità che non esistono più, oppure differenziazioni tagliate con la scure, quando oggi invece la domanda che arriva dalle aziende alle università ha una serie infinita di sfaccettature. Una volta, ad esempio, c’erano gli ingegneri e gli architetti: oggi queste due categorie hanno una grande varietà di soluzioni professionali nuove e/o alternative. L’università non può rispondere a questa varietà richiesta dal mercato soltanto quantitativamente, moltiplicando, cioè, il tipo delle specializzazioni, in cui, però, sono presenti più o meno gli stessi contenuti. Capire bene la definizione degli skill professionali imposti dall’evoluzione dal mondo del lavoro, è la base per ridefinire i contenuti formativi.
Un discorso a parte meriterebbe poi la Pubblica Amministrazione, nella quale il turn over è bloccato da anni con tre evidenti conseguenze: invecchiamento della popolazione, mancata assunzione di giovani digitali che l’Università forma e di cui ci sarebbe un disperato bisogno per dialogare con gli utenti/clienti in un mercato sempre più 2.0, diseconomico ricorso a consulenze esterne che vanifica quel contenimento della spesa che si vorrebbe realizzare con il blocco delle assunzioni.

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